Perché la psicoterapia funziona?
In un epoca altamente tecnologizzata come la nostra siamo sempre alla ricerca di cure rapide, efficaci e che impattino il meno possibile sulla nostra routine quotidiana. La diffusione di internet ha fatto sì che molte risposte alle nostre domande di cura passino attraverso questo mezzo riconoscendo ad esso il vantaggio di essere rapido e di evitarci l’entrata in contatto con un’altra persona (il medico, lo psicologo).
Anche quando, finalmente, dopo aver fatto ricerche e letto risposte del "Dottor Internet” decidiamo di rivolgerci ad un esperto, ci aspettiamo e desideriamo che la cura sia comunque rapida e il meno coinvolgente possibile (dal punto di vista emotivo e relazionale).
È giusto che sia così? E’ lecito aspettarsi una serie di prescrizioni dal curante (medico o psicologo) mantenendo con lui una certa distanza?
Ancora: sappiamo cosa succede realmente nella relazione medico-paziente? Cosa accade nella mente di una persona quando essa si rivolge ad un curante (medico o psicologo) in cerca di aiuto in seguito ad un malessere?
Prima della nascita della medicina occidentale, gli uomini si affidavano allo sciamano in un rapporto di fiducia e di speranza, speranza e fiducia che entravano a far parte della cura ed erano risolutive per quella. Quando circa cento anni fa fece il proprio esordio la medicina occidentale, evidentemente con meno conoscenze e meno mezzi di adesso, anche in quel caso le persone si affidavano ai medici con altrettante aspettative di guarigione ed in un rapporto di fiducia che appare generalmente diverso da quanto accade oggigiorno in molte relazioni di aiuto tra malato e curante.
Si può obiettare - per fortuna aggiungo io - che le nostre conoscenze scientifiche siano nettamente accresciute e non ci sia più bisogno di approcciarsi alla cura con quel misto di superstizione e fiducia acritica. Tutto esatto.
Anche la tecnologia medica cerca di far uscire la "relazione umana" fuori dai processi di cura, per motivi pratici, di razionalizzazione e velocizzazione dei percorsi.
Dimentichiamo però che, proprio grazie a queste nostre aumentate conoscenze scientifiche, oggi possediamo altrettante conoscenze provate e documentate sui meccanismi psicologici, neurologici e biochimici sottesi a quei processi complessi quali la speranza, la fiducia, la compassione (e le emozioni in genere), proprio quelle emozioni alla base di ogni rapporto tra una persona sofferente ed il proprio curante.
Non bisogna, inoltre, dimenticare che da punto di vista evoluzionistico, i circuiti cerebrali dell’empatia, della compassione ed in genere quelli coinvolti nelle relazioni umane, inscritti nella parte più antica del nostro cervello, hanno permesso ai nostri avi di sopravvivere, rendendoli migliori rispetto ad altre specie ed altri competitors. Per questo motivo, seppur la tecnologia abbia uno sviluppo veloce ed incontrastato, non può essere possibile mettere in discussione schemi innati e biologicamente consolidatisi in milioni di anni. La relazione umana e l’accudimento hanno avuto un ruolo decisivo nello sviluppo della nostra specie e nella crescita individuale di ogni essere umano.
Un riscontro scientifico
Riporto la descrizione e gli esiti di una ricerca pubblicata nel 2001 dalla rivista Pain, un’autorevole rivista internazionale che si occupa di terapia del dolore. L’esperimento consisteva nel somministrare a due gruppi diversi di pazienti gli stessi farmaci antidolorifici ma con diverse modalità.
Al primo gruppo i farmaci venivano somministrati tramite una macchina automatica ad infusione, senza l’intervento di alcun operatore.
All'altro gruppo, furono somministrati gli stessi farmaci antidolorifici ma con una importante differenza: era previsto l’intervento di un medico, il quale si presentava al letto del paziente, lo informava di quanto sarebbe accaduto (l’iniezione, appunto) descrivendo gli effetti del farmaco e spiegandogli che il dolore sarebbe passato entro poco tempo.
I risultati mostrarono che per i pazienti del primo gruppo, quelli in cui l’intervento era stato eseguito dalla macchina automatica, fu necessaria una dose più alta di farmaco antidolorifico. Viceversa, i pazienti che avevano goduto di una minima relazione con il curante, avevano avuto bisogno di una quantità nettamente minore di farmaco per ottenere la stessa soglia di diminuzione del dolore.
Si può concludere, senza timore di essere smentiti, che le persone hanno bisogno di sentirsi guardate e pensate.
Hanno bisogno di sentire di essere presenti nella mente del curante. Questa è la caratteristica intrinseca della mente umana: il bisogno di essere in una relazione emotiva significativa.
È per questo motivo che la psicoterapia funziona.
Anche quando, finalmente, dopo aver fatto ricerche e letto risposte del "Dottor Internet” decidiamo di rivolgerci ad un esperto, ci aspettiamo e desideriamo che la cura sia comunque rapida e il meno coinvolgente possibile (dal punto di vista emotivo e relazionale).
È giusto che sia così? E’ lecito aspettarsi una serie di prescrizioni dal curante (medico o psicologo) mantenendo con lui una certa distanza?
Ancora: sappiamo cosa succede realmente nella relazione medico-paziente? Cosa accade nella mente di una persona quando essa si rivolge ad un curante (medico o psicologo) in cerca di aiuto in seguito ad un malessere?
Prima della nascita della medicina occidentale, gli uomini si affidavano allo sciamano in un rapporto di fiducia e di speranza, speranza e fiducia che entravano a far parte della cura ed erano risolutive per quella. Quando circa cento anni fa fece il proprio esordio la medicina occidentale, evidentemente con meno conoscenze e meno mezzi di adesso, anche in quel caso le persone si affidavano ai medici con altrettante aspettative di guarigione ed in un rapporto di fiducia che appare generalmente diverso da quanto accade oggigiorno in molte relazioni di aiuto tra malato e curante.
Si può obiettare - per fortuna aggiungo io - che le nostre conoscenze scientifiche siano nettamente accresciute e non ci sia più bisogno di approcciarsi alla cura con quel misto di superstizione e fiducia acritica. Tutto esatto.
Anche la tecnologia medica cerca di far uscire la "relazione umana" fuori dai processi di cura, per motivi pratici, di razionalizzazione e velocizzazione dei percorsi.
Dimentichiamo però che, proprio grazie a queste nostre aumentate conoscenze scientifiche, oggi possediamo altrettante conoscenze provate e documentate sui meccanismi psicologici, neurologici e biochimici sottesi a quei processi complessi quali la speranza, la fiducia, la compassione (e le emozioni in genere), proprio quelle emozioni alla base di ogni rapporto tra una persona sofferente ed il proprio curante.
Non bisogna, inoltre, dimenticare che da punto di vista evoluzionistico, i circuiti cerebrali dell’empatia, della compassione ed in genere quelli coinvolti nelle relazioni umane, inscritti nella parte più antica del nostro cervello, hanno permesso ai nostri avi di sopravvivere, rendendoli migliori rispetto ad altre specie ed altri competitors. Per questo motivo, seppur la tecnologia abbia uno sviluppo veloce ed incontrastato, non può essere possibile mettere in discussione schemi innati e biologicamente consolidatisi in milioni di anni. La relazione umana e l’accudimento hanno avuto un ruolo decisivo nello sviluppo della nostra specie e nella crescita individuale di ogni essere umano.
Un riscontro scientifico
Riporto la descrizione e gli esiti di una ricerca pubblicata nel 2001 dalla rivista Pain, un’autorevole rivista internazionale che si occupa di terapia del dolore. L’esperimento consisteva nel somministrare a due gruppi diversi di pazienti gli stessi farmaci antidolorifici ma con diverse modalità.
Al primo gruppo i farmaci venivano somministrati tramite una macchina automatica ad infusione, senza l’intervento di alcun operatore.
All'altro gruppo, furono somministrati gli stessi farmaci antidolorifici ma con una importante differenza: era previsto l’intervento di un medico, il quale si presentava al letto del paziente, lo informava di quanto sarebbe accaduto (l’iniezione, appunto) descrivendo gli effetti del farmaco e spiegandogli che il dolore sarebbe passato entro poco tempo.
I risultati mostrarono che per i pazienti del primo gruppo, quelli in cui l’intervento era stato eseguito dalla macchina automatica, fu necessaria una dose più alta di farmaco antidolorifico. Viceversa, i pazienti che avevano goduto di una minima relazione con il curante, avevano avuto bisogno di una quantità nettamente minore di farmaco per ottenere la stessa soglia di diminuzione del dolore.
Si può concludere, senza timore di essere smentiti, che le persone hanno bisogno di sentirsi guardate e pensate.
Hanno bisogno di sentire di essere presenti nella mente del curante. Questa è la caratteristica intrinseca della mente umana: il bisogno di essere in una relazione emotiva significativa.
È per questo motivo che la psicoterapia funziona.
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Post scritto da Leonardo Paoletta
Psicologo e psicoterapeuta Monza.
Sono uno Psicologo, Psicoterapeuta ed Analista Transazionale.